Pronto, Polizia?

Dicembre è da sempre periodo di bilanci. Questa volta però, pur essendo iniziato da poco, si avverte già l’urgenza di mettere un punto, senza ulteriori indugi, a questi ultimi dodici mesi. Che il 2020 passerà alla storia come l’anno della pandemia è ormai fuor di dubbio. Sarebbe fuorviante, però, liquidare la discussione così. Ci si potrebbe dimenticare infatti di come sia stato anche l’anno delle proteste per le violenze della polizia. La morte dell’afroamericano George Floyd lo scorso maggio ha segnato uno spartiacque senza precedenti, portando il tema all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.

Lungi dall’essere un fenomeno tutto americano, è la Francia nelle ultime settimane a far parlare di sé. Già patria di casi non dissimili da quello di Minneapolis, a scatenare il dissenso questa volta è la discussa legge sulla sicurezza proposta dal partito del Presidente. Una legge per proteggere chi ci protegge, che renderebbe illegale diffondere immagini di agenti in azione, qualora fossero identificabili. Se la ratio della misura è tutelare maggiormente la privacy degli agenti, questa ha anche un’implicazione di non poco conto. La sua approvazione renderebbe fortemente problematico documentare gli abusi, frequenti nell’ultimo periodo: dal violento sgombero dei migranti in Place de la République, che ha lasciato la società civile sgomenta; al recente pestaggio del produttore musicale Michel Zecler. Se questa legge dovesse passare, potrebbe pregiudicare la libertà d’informazione, messa già a dura prova negli scorsi giorni: durante le proteste, infatti, nemmeno i giornalisti in servizio sono stati esentati da colpi di manganello in pieno volto.

La questione è più endemica di quanto alla classe politica faccia piacere pensare, e non basteranno una manciata di sospensioni e condanne a sanarla. Le radici della brutalità delle forze dell’ordine vanno ricercate nelle condizioni di lavoro spesso precarie a cui sono sottoposte, ma soprattutto nella legittimazione dell’abuso della violenza, una certa cultura dell’impunità e la vicinanza ad ambienti di destra, che non hanno mai davvero chiuso la partita con il passato.

Ne sono prova le centinaia di chat scoperte negli ultimi mesi, questa volta in Germania: fotomontaggi di migranti in camere a gas, svastiche e immagini del Führer popolavano le conversazioni fra membri delle forze dell’ordine. Una serie di scandali, che ha investito il Nordrhein-Westfalen e il Mecklenburg-Vorpommern. Parlare di esercito ombra o di rete nazionale riporta alla mente le ultime fasi della Repubblica di Weimar, quando il Paese stava già scivolando nel periodo nazista. Pensieri di cui ci si vergogna e che vengono rapidamente ricacciati indietro, al posto che occupano, saldamente nel passato. Ci si gira dall’altra parte, quindi, ignorando un problema che nel frattempo riacquisisce spazio, beandosi dell’invisibilità regalatagli proprio da chi dovrebbe combatterlo.

In Germania il Ministero dell’Interno continua a battere la pista dei casi isolati. Inizia però a suonare quasi come una professione di malafede, oltre che denotare scarsa lungimiranza. I campanelli d’allarme, infatti, ci sono tutti. Dal rapporto pubblicato lo scorso gennaio dal Servizio Tedesco di Controspionaggio emerge come siano 500 i casi in esame di soldati sospettati di essere estremisti di destra. Le evidenze mostrano come la maggior parte di questi appartenga al corpo d’élite Kommando Spezialkrafte (KSK) e le accuse passano da festini a base di rock neo-nazista e saluti romani, a possesso di armi ed esplosivo sottratti all’esercito. La preoccupazione è che la rete di estremisti si stia organizzando in maniera organica per attentati o veri e propri colpi di stato. Alla luce di questo, lo scorso luglio è stata sciolta parte del KSK. Un fatto grave, dal momento che si tratta del corpo meglio addestrato della Repubblica Federale, preposto, almeno in teoria, alla difesa della sua stessa esistenza.

L’estremismo di destra non si ferma però nelle caserme, né nei circoli privati, ma la collusione con le forze di sicurezza è sempre il comune denominatore. Alla fine dell’estate si era tornato a parlare di una serie di email intimidatorie, Terrormails, recapitate a diversi esponenti politici. Erano state inviate dai militanti di Nationalsozialistischer Untergrund 2.0, un’organizzazione che si pone in linea di continuità con il gruppo terroristico responsabile di una serie di attentati nei primi anni Duemila. Il 2.0 rappresenta l’evoluzione e l’impiego della tecnologia digitale. Il forte sospetto è che indirizzi e recapiti siano stati recuperati proprio grazie ai contatti con le forze dell’ordine.

Il Ministro dell’Interno Seehofer, però, non si scompone: continua sulla linea delle proverbiali mele marce, perché – assicura – il 99% dei funzionari è fedele alla Repubblica federale. Le accuse di razzismo sistemico risultano quindi, per lui, incomprensibili. Ogni tentativo di indagine indipendente all’interno delle forze dell’ordine è stato bloccato. C’è già chi se ne occupa, è stata la risposta. L’Ufficio federale per la protezione della Costituzione, servizio segreto subordinato al Ministero dell’Interno, ha effettivamente pubblicato un rapporto lo scorso ottobre. I dati però sono stati considerati parziali: il Ministro dell’Interno del Nordrhein-Westfalen, particolarmente colpito dal Chat-Skandal, non trova corrispondenza fra i numeri rilevati nel suo Land e quelli complessivi.

Questi episodi vanno ad inserirsi in un contesto di progressiva rilegittimazione dell’estrema destra, che trova rappresentanza parlamentare in AfD, ma che non rinuncia a fatti di sangue: lo scorso febbraio ad Hanau sono stati presi di mira gli shisha bar degli immigrati, a giugno un politico conservatore troppo progressista e ad ottobre una sinagoga. La Germania, che piaccia o no, non ha ancora saldato il conto con i mostri del passato. Non rendersene conto potrebbe voler dire vederli tornare.