Ci sarà da discutere

Chi si aspettava un ritorno di fiamma fra Germania e Stati Uniti, dopo la burrascosa parentesi Trump, dovrà rimanere deluso. Quella fra i due paesi era effettivamente un’unione di lunga data, ma è stata poi la volta del tycoon, della sua diplomazia poco ortodossa, delle accuse reciproche e di un’antipatia tanto profonda quanto malcelata. Il giorno della sua sconfitta, Berlino ha effettivamente tirato un sospiro di sollievo e si è lasciata scappare un grido esultante. La doccia fredda è arrivata, però, proprio dalla cancelliera Merkel, che ha rotto gli indugi e messo in guardia il neoeletto presidente Biden: ci sarà molto su cui discutere. Niente rinnovo delle promesse, quindi, né festosi ritorni alle glorie del passato. La Germania negli ultimi quattro anni ha guardato sempre più ad Est, verso interlocutori dalle orecchie attente e ben disposte. Ha firmato accordi e realizzato progetti perseguendo una via tedesca autonoma, cercando di svincolarsi da quella controparte americana che non ammira più ciecamente, ma da cui sempre più spesso desidera prendere le distanze.

Su questo, l’opinione pubblica non ha grossi dubbi: il 79% dei tedeschi definisce le relazioni con gli Stati Uniti come non positive. Gli ultimi quattro anni hanno segnato profondamente la loro percezione: merito soprattutto di Trump e della sua roboante retorica, poco gradita già prima dei suoi ultimi deliri, di cui l’appoggio all’assalto del Campidoglio è solo l’ultimo di una lunga serie. La sfiducia tedesca negli Stati Uniti ha quindi almeno due nette conseguenze. Da un lato, una certa preoccupazione per la salute della democrazia americana, che si considera nettamente inferiore alla propria, e pari in larga misura a quella polacca, non un invidiabile esempio di stato di diritto in Europa. Dall’altra, un rafforzamento per antitesi della considerazione di altri partner: più di un terzo della popolazione sarebbe favorevole ad un’intensificazione delle relazioni con la Cina, piuttosto che agli Usa.

L’America di Trump non è poi così grande, dopotutto, e rischia piuttosto di Pechino. Ne è prova il recente accordo, in ballo dal 2013, fra Ue e Cina sugli investimenti (CAI) che va a sostituire una serie di accordi bilaterali. È stato concluso in tutta fretta alla fine dello scorso anno, in larga misura per sfruttare il semestre tedesco di presidenza dell’Ue. Anche la la transizione presidenziale americana, però, ha contribuito. La Cina, sapientemente, ha cercato negli anni di ritagliarsi uno spazio in Europa, sfruttando la divisione interna all’Unione Europea e aggiudicandosi – se non l’amicizia – almeno la collaborazione di alcuni stati membri, che potrebbe tornarle utile in futuro.

Altro punto importante che tocca i tedeschi in prima persona è il ritiro delle truppe Usa minacciato da Trump negli ultimi mesi della sua presidenza. Nel balletto dei rimproveri reciproci, infatti, The Donald non aveva mancato di far sapere alla controparte che il suo contributo al bilancio Nato è ben sotto il 2% del PIL concordato e che, comunque, questa percentuale è ridicola. Dai rimproveri si è passati poi alle minacce: era stato infatti ordinato il ritiro di 12.000 soldati dalla Germania, un terzo delle truppe americane ancora presenti su suolo tedesco. Questi sarebbero dovuti essere rimpatriati o riassegnati ad altri paesi Nato più virtuosi. Al di là del supporto che queste truppe danno alla sicurezza tedesca in primis ed europea poi, con il loro ritiro intere cittadine rischiano di scomparire, risucchiate da boschi e campi.

È il caso di Spangdahlem, minuscolo comune del Rheinland-Pflanz, che conta nemmeno mille abitanti, ma da 70 anni ospita 5mila militari americani, che con le loro famiglie costituiscono una comunità di 12mila persone. Una città nella città, altrimenti votata a un destino rurale, che ha visto fiorire una serie di servizi proprio in virtù della presenza americana. Un ritiro, per queste aree, significherebbe ipotecare la propria esistenza a sussidi statali. Al Reichstag la notizia è stata accolta come uno schiaffo, un’attestazione materiale, seppur ancora ipotetica, di quelle relazioni ormai deteriorate. Al momento tutto tace, e nel bilancio americano 2021 sono state inserite le voci di spesa per le truppe oltremare. Biden potrebbe quindi non risollevare la questione del ritiro, ma esigerà un maggiore impegno in ambito Nato.

Meglio la Germania o gli Stati Uniti? In Europa le persone non hanno dubbi: Berlino è peggio

Ultimo convitato a questo teso banchetto è certamente Nord Stream II, il grande gasdotto che corre sotto il Baltico e garantirà una fornitura russa diretta alla Germania. Problematico di per sé, per quello che la Russia rappresenta, a maggior ragione dopo la vicenda Navalny: le indagini riguardanti l’avvelenamento dell’attivista puntano senza grandi riserve sul Cremlino, e arrestare l’attivista il secondo che ha messo piede su suolo russo non ha certo fatto riguadagnare punti innocenza a Putin. In patria, ora, verdi e sinistra hanno chiesto a gran voce la sospensione della costruzione dell’opera, così come in parte l’Unione Europea.

Comprensibile, non fosse che dei totali 1200 km di gasdotto solo 150 sono ancora da ultimare e che la Germania, seppur in percentuale minore rispetto alla Russia, ha già investito molto. Il gasdotto, poi, dovrebbe concludersi nella regione del Mecklenburg-Vorpommern, uno dei Land più poveri della Germania, che non intende lasciarsi scappare questa nuova centralità. La linea americana a riguardo è chiara: il progetto va interrotto, senza se e senza ma. Merkel ha spesso ribadito la linea dell’interesse economico, sottolineando come gli stessi Stati Uniti dipendano in certa misura dalle esportazioni russe. Se si arriverà ad un tavolo negoziale, ognuno dovrà presentare le proprie carte.

La Germania che Angela Merkel lascerà a settembre è un paese a cui manca una linea chiara da seguire. Se temporeggiare su più fronti è di fatto una strategia, allora Armin Laschet sembra essere un candidato papabile per la cancelleria, nella sua ambiguità: paladino dell’atlantismo e strenuo europeista, è stato spesso accusato di strizzare l’occhio alla Russia. Si tratta quindi di capire quanta autonomia saprà davvero ritagliarsi la Germania: quanto vorrà lasciare l’ala protettiva degli Stati Uniti, e quanto le convenga invischiarsi invece con le grandi potenze dell’Est, che offrono commerci interessanti, certo, ma scarse garanzie sui valori che le guidano. Forse però ha più senso trovare una quadra più ampia, e non tutti sono convinti che il governatore del Nordrhein-Westfalen abbia il carisma giusto per ricevere questa eredità.