Trump washing

Anche le banche possono essere buone: è la notizia della settimana, dopo che per troppo tempo si era sostenuto il contrario. Deutsche Bank ha infatti deciso di seguire la voce della propria coscienza, piuttosto che il richiamo del denaro, ed ha abbandonato Donald Trump al suo destino. Anche per una banca dedita ad ogni tipo di investimento i fatti del Congresso sono stati troppo da sopportare. Di fronte a quello che è stato descritto come un tentativo di colpo di stato arringato dallo stesso presidente chiudere gli occhi non è più stato possibile. Di qui la scelta di sospendere ogni affare con Trump, seguendo l’esempio di Coca Cola, Google e pure Airbnb.

Il mondo sembra essersi svegliato dopo anni di affari opachi, con i maggiori colossi mondiali che si stanno ravvedendo e, scoperta l’insita meschinità del tycoon americano, hanno ritrovato il piacere di portare avanti affari etici. Questo perlomeno è il messaggio che ci arriva in questi giorni, con i media quasi emozionati nel raccontare tale cambiamento. Tuttavia, se questa inversione di rotta è davvero dovuta a motivazioni morali, qualcosa non torna: fosse così, servirebbe una coerenza che manca invece totalmente, e basta uno sguardo rapido per affermarlo.

Deutsche Bank è una delle maggiori banche di investimento al mondo. Il colosso è presente in ogni parte del globo e conta 25 miliardi di fatturato e circa 30 milioni di clienti, oltre a vantare quasi 90mila impiegati. La storia dell’istituto finanziario, tuttavia, non è segnata nel suo insieme da una costante spinta internazionale verso una crescita sempre maggiore: a lungo Deutsche Bank è stata “la banca tedesca, per i tedeschi”, pensata per aiutare lo sviluppo dell’economia nazionale. Solo dagli anni ‘70 si è iniziato a pensare in grande, spingendo DB al di fuori degli ormai angusti confini nazionali.

I numeri enormi che la banca può oggi snocciolare non le garantiscono però una buona condizione di salute: anzi, da anni questa vive una profonda crisi e sta tentando di ripensare le proprie strategie, anche a costo di tornare a recitare un ruolo soltanto europeo. Le difficoltà e la scelta di allontanarsi dal continente americano sono dovute anche ad una serie di sanzioni decise dagli organi di controllo statunitensi, in cui Deutsche Bank è incappata con accuse piuttosto pesanti: riciclaggio di denaro, finanziamenti ad affari illeciti, legami con casi di corruzione.

È naturale che una banca di queste dimensioni possa trovarsi coinvolta in inchieste, così come è impossibile pensare che questa abbia la capacità di controllare l’onestà di tutti i propri clienti. Ma le ombre che si sono allungate su Deutsche Bank sembrano troppo scure per essere spiegate soltanto con la statistica o con una semplice casualità. Spiccano soprattutto i dati contenuti nei FinCEN Files, una serie di documenti trapelati dal Dipartimento del Tesoro americano, al centro di un’inchiesta giornalistica internazionale sul riciclaggio di denaro sporco. Si calcolano circa 2mila miliardi di transazioni sospette nell’ultimo ventennio, e si attribuiscono tre quarti soltanto al colosso tedesco.

Impressionanti sono anche i nomi. Jeffrey Epstein, ad esempio: imprenditore famoso e di successo, almeno fino a quando non sono emersi una serie di scandali sessuali che l’hanno portato all’arresto e poi al suicidio. Deutsche Bank era la sua banca di fiducia, tanto da servirsene anche per una serie di bonifici a luci rosse. Ecco quindi spiegata la multa di 150 milioni all’istituto tedesco, colpevole di aver ignorato chiari indizi del comportamento criminale di Epstein. Sempre in territorio americano, rilevante è il legame con Paul Manafort, ex consigliere di Trump condannato per reati fiscali e sospettato di rapporti grigi con la Russia.

Basta guardare alla lista per capire come il secondo terreno di conquista e investimento sia stato l’Asia. In principio è stato il Turkmenistan, dove a lungo sono stati coltivati stretti rapporti con il regime di Niyazov, dittatore repressivo e acerrimo nemico di ogni forma di libertà. Poi è stato il turno della Malesia, dove Deutsche Bank è stata coinvolta insieme a JP Morgan in un’enorme truffa di stato, che ha visto il trasferimento di ingenti fondi pubblici nelle mani di pochi uomini vicini al potere: tra questi anche Jho Low, ancora latitante.

Nell’aggiungere nuove multe a quelle vecchie, le autorità statunitensi hanno sottolineato come il comportamento della banca non sia cambiato: sono continuate le attività sospette, così come quelle sulla cui illegalità non ci sono proprio dubbi. Per chi è rimasto turbato, quindi, nessuna preoccupazione: Deutsche Bank è sempre la stessa. La conclusione delle relazioni finanziarie con Trump non segna certo la fine di un comportamento spregiudicato.

Il presidente americano è semplicemente diventato un cattivo sponsor: non che prima fosse un simbolo positivo, ma dai fatti del Congresso in poi è stato condannato su tutta la linea da – quasi – tutti. Bloccare gli affari significa soprattutto tutelare la propria immagine e, quindi, la propria salute economica. Come rischiano di avere ripercussioni sugli affari altrui, le vicende di Trump hanno conseguenze anche sul suo business: già in difficoltà, questo risente ora del danno di immagine e si guarda con preoccupazione alla fine del mandato. Deutsche Bank è stata negli anni tra i maggiori finanziatori dei progetti trumpiani, tra campi da golf e grattacieli, e si stima che il presidente abbia ancora un debito di 340 milioni di dollari: l’interruzione delle relazioni serve alla banca soprattutto per tutelarsi, uscendo da questo rapporto difficoltoso prima che i danni siano maggiori.Abbandonare Trump è quindi a tutti gli effetti un’operazione strategica e di mercato, dettata da ragioni che poco hanno a che fare con democraticità e rispettabilità dei clienti. Attenzione dunque a non credere al trucco del “Trump washing”: chi non ha più a che fare con The Donald non lo fa per un’improvvisa redenzione, nè va lodato per il suo impegno umanitario. D’altronde, se ora ha qualcosa da interrompere significa che in precedenza ha fatto affari con lui, che fino a questo momento non era di sicuro un santo.