I faggi di Buchenwald

In principio, Weimar era conosciuta per essere la casa di Wolfgang Goethe, padre dell’illuminismo tedesco. Poi arrivò la Repubblica e prese il nome da questa cittadina al centro della Turingia, circondata da boschi di faggi: un’esperienza tanto nobile quanto fragile e breve, bruscamente interrotta dopo un decennio di instabilità. Infine, furono i nazisti: l’impronta del regime fu concreta in questi luoghi, con la presenza invisibile del campo di concentramento di Buchenwald ad una manciata di chilometri dal centro abitato, sulla collina di Ettersberg. Archiviata la guerra e liberato il lager, questo fu dimenticato per una decina d’anni: scomodo, era d’altronde pensato per rimanere nascosto, i faggi a proteggere da sguardi e domande indiscrete.

Quando Buchenwald fu liberato, l’11 aprile 1945, la porzione di terra posta tra i recinti di filo spinato aveva assistito a fatti disumani, tanto crudeli da sembrare irreali. Il campo di concentramento era uno dei principali nel terzo Reich e negli anni precedenti aveva fatto da prigione a 250 mila tra ebrei, zingari, disabili e omosessuali. Oltre 50 mila tra questi vi erano morti, chi nel forno crematorio, chi vittima di una sistematica sperimentazione medica: sotto la guida di Ilse Koch, la Strega di Buchenwald, le persone venivano menomate, gli omosessuali curati con massicce dosi di testosterone. Una particolare attenzione ricevevano i tatuaggi, tolti dai corpi degli internati per essere gelosamente collezionati dalla donna.

Le truppe americane giunte sul luogo trovarono 900 bambini ancora vivi, tra cui un giovanissimo Elie Wiesel, e poterono vedere con i propri occhi le prove delle efferatezze naziste. Davanti a loro si presentava un lager quasi intatto: i tedeschi erano stati colti alla sprovvista dalla veloce avanzata alleata e avevano in parte perso il controllo del campo negli ultimi giorni, non potendo distruggere prove e vite. Le 61 baracche erano ancora in piedi, così come le avevano costruite otto anni prima poche centinaia di deportati, lavorando il legname della foresta sotto gli ordini delle SS.

Conclusosi il conflitto e passata la Turingia sotto la zona di controllo sovietico, si poneva l’esigenza di mettere una pietra sopra le opere del terzo Reich. La conferenza di Potsdam stabilì quindi l’urgenza di arrestare e internare chiunque fosse pericoloso per la propria vicinanza al nazismo, in attesa che un processo ne decidesse le sorti. Una possibilità di ritorsione attesa da chi, come l’Unione Sovietica, aveva sofferto per mano nazista oltre tre milioni di morti nei soli campi di concentramento. Un’operazione per cui il campo di Buchenwald, intatto e potenzialmente funzionante, si prestava perfettamente, aggiungendo anche la soddisfazione di rifarsi dei criminali tedeschi sul loro stesso terreno, rivoltando loro contro uno dei simboli della colpevolezza nazista.

Tra il 1945 e il 1950 il lager nel cuore della Germania fu riportato in funzione, con il nome di Speziallager 2: al suo interno arrivarono circa 28 mila persone, per lo più appartenenti ai quadri medi del regime o prima rappresentanti del partito sul territorio. Non innocenti, per la gran parte: l’associazione che oggi gestisce il campo ha stimato che il 75 per cento di questi fossero direttamente coinvolti nell’attività del Terzo Reich o collaborassero con il regime, fornendo informazioni e denunciando conoscenti e vicini di casa. Nemmeno efferati criminali di guerra, però: non era Buchenwald il luogo dove finivano i membri delle SS, né coloro che avevano ricoperto importanti cariche.

La celebre quercia di Goethe inglobata all’interno del campo e protetta dalle guardie naziste

Chiuso il forno crematorio e cessate le violenze sui prigionieri, la vita degli internati sotto la direzione sovietica era comunque appesa ad un filo, che poteva essere spezzato dalla fame o dal freddo. Furono in settemila a non uscire mai più dall’imponente cancello, se non per andare ad adagiarsi nella fossa comune ritrovata solo dopo anni. Altri uscirono di senno, rinchiusi in un luogo la cui esistenza non era conosciuta, senza vedere nessuno e con le famiglie ignare di tutto: impossibile sapere se chi era stato internato fosse ancora vivo, dove si trovasse. Impossibile per i prigionieri ammettere la propria colpevolezza a quei parenti che erano inconsapevoli, piuttosto che argomentare invece la propria innocenza.

Negare l’esistenza del campo sovietico non è stato necessario, a lungo. Sotto il regime comunista della DDR non c’era il rischio di essere sottoposti a domande spinose, né tantomeno di dovervi rispondere. Sulla collina di Goethe calò quindi un nuovo, diverso, silenzio e la storia del lager nel dopoguerra finì nell’ombra. Una volta terminato il lavoro sovietico, le baracche e gran parte delle strutture furono rase al suolo, insieme alle possibili prove di ciò che era successo in quei cinque anni e ai sensi di colpa che potevano sorgere a riguardare quelle catapecchie utilizzate due volte. Solo il forno venne lasciato, elemento accusatore e non compromettente per i russi.

Caduto il muro, sono arrivati una nuova consapevolezza ed un dibattito ben più volto a trovare il male anche nella parte sovietica, che non a cercare la verità storica. Ma un crimine, se condiviso, non diventa meno efferato, né calano i danni che questo provoca. Buchenwald spera in un futuro più roseo, dove i faggi tornino ad indicare il passare delle stagioni e ad offrire ombra e tranquillità, invece che nascondiglio: ma nessun argomento, ne è consapevole, potrà cancellare il dramma a cui ha assistito.